LA WELTANSGHAUUNG DI GUIDO
Tutti noi lo abbiamo chiamato sempre “il Barone”. Perché – in effetti – si comportava veramente da Barone, con quel misto di ironia e distaccato disinteresse verso le umane tribolazioni dalle quali non era certo immune, che soffriva e affrontava anche lui ma in silenzio e con la forza di chi è abituato per educazione e sangue a “volare molto alto”. A nessuno di noi, che abbiamo condiviso con lui tanti anni ricchi e bellissimi, è venuto mai in mente di approfondire da dove nascesse quel soprannome che era anche titolo nobiliare. Perché – adesso che non c’è più possiamo dirlo – i suoi effettivi quarti di nobiltà gli derivavano dall’ essere primogenito di una famiglia che veniva dalla nobiltà del latifondo calabrese e gli avrebbero a pieno diritto consentito di farsi chiamare Don Guido de’ Principi Compagna. Ma, come sempre in tutta la sua vita (e anche per questioni assai più delicate) queste “sbruffonate” lo lasciavano indifferente, semmai gli provocavano l’orticaria. Tutti hanno già ricordato nel dettaglio il suo stile, la sua gentilezza, la sua formazione negli anni in cui Napoli era un crogiuolo di intelligenze tra le più vive e brillanti, dalla rivista Nord Sud creata dal padre Chinchino alle frequentazioni con Rosellina Balbi a Francesco Rosi e tanti altri da lui menzionati nel bel libro “quando eravamo liberali e socialisti”. Fino alla politica spiegata senza scivolate nel “politichese” dalla seconda pagina de Il Sole 24 ore (non quello di oggi, ovviamente, ma quello di un colosso del giornalismo come Gianni Locatelli). Ecco perché qui mi piace solo spiegare in cosa consisteva la “weltanschauung” di Guido. La sua concezione del mondo, una visione della vita fatta di sensibilità, fatalismo e ironia che applicava nel privato e nel mondo del lavoro. Un approccio direi quasi filosofico che nascondeva dietro al “cazzeggio” di redazione o allo sberleffo verso chi nella politica e nel giornalismo si prendeva troppo sul serio. Aveva chiara tutta la complessità del mondo in cui ci tocca di vivere, la lotta mai risolta tra tradizione e contemporaneità. Condividevamo entrambi – perché tutti e due cresciuti con l’odore del piombo nelle narici e il rumore delle linotype nelle orecchie – gli stessi dubbi sulla capacità salvifica delle nuove tecnologie. Eravamo entrambi dipendenti dalle abilità dei fratelli Procopio o di Federichino D’Aco nello sbloccare testi che sparivano, agenzie che non si trovavano, computer imballati. Per noi, che amavamo la “lettera 22” Procopio e Federichino, erano quasi degli “apprendisti stregoni” nelle cui mani consegnavamo il nostro sapere, i nostri miserabili “scoop”. Loro capivano il nostro disagio e ci guardavano con simpatia e indulgenza. Sempre con il sorriso. La scena si ripeteva pari pari al ”campetto” delle Aquile dell’Acqua Acetosa ogni mattina (prima della telefonata di Carboni) nelle sedute di preparazione per le maratone fatte insieme (Venezia 1999, Trieste Bavisela 2000). Lo stesso irriverente distacco per i master elite che si credevano Mennea e poi crollavano al “muro” del 30° chilometro. La vita pensata e vissuta come una maratona. Meglio come un allenamento quotidiano per prepararsi alla gara più dura di tutte. Ci capivano senza parlare. Eravamo, del resto, nati lo stesso giorno di luglio. Lui dieci anni prima di me, a guerra finita da un anno. Molti compleanni fatti insieme. E le telefonate quotidiane fino a poche settimane fa. Solo per essere sicuri che il filo rosso c’era ancora. Caro Guido quel filo non si è rotto.